Scrittori Anonimi. Notizie dal carcere di Bollate. Disappunto

Tempo di lettura: 7 minuti

Il mio ritorno dietro le sbarre, dopo un’assenza di parecchi mesi, è una richiesta che mi viene fatta a fine giugno da un amico, collega e compagno di questa mia avventura iniziata nel 2012. Si tratta di tornare ‘dentro’, questa volta a Bollate, per salutare gli uomini che hanno partecipato ai nostri incontri per lungo tempo e coi quali ho instaurato, infuso e ottenuto fiducia. Cosa piuttosto complicata in un ambiente dove la libertà viene preclusa a tempo non determinato.

Ciò che realizzo poco prima di entrare è che questo incontro per saluti estivi è riservato a persone sconosciute e recluse nel settimo reparto quello dei protetti, tra i quali ci sono i sex-offenders, quelli coi quali fatico a relazionarmi.

Il sorriso mi si spegne in volto, passo i controlli di routine e mi incammino fianco a fianco con Sonja, da sempre la mia amica e compagna nella conduzione dei corsi. Percorrendo il lungo corridoio che conduce ai reparti, cerco di non lasciare spazio all’inquietudine, non voglio cadere nelle fitte trame del pregiudizio che ho abbandonato nel momento in cui ho deciso di accettare questo incarico e avanzo coi tacchi che risuonano sul pavimento lucido di acqua saponata appena tirata con straccio e spazzolone che un addetto alle pulizie ritira al nostro passaggio, indicandoci la via più sicura per non slittare.

Giro la testa in direzione del secondo reparto, dove avevamo condotto e concluso un laboratorio l’anno precedente: il corridoio è deserto, nessun volto conosciuto, solo un altro addetto che si affaccia, appoggiando il mento al manico del suo attrezzo e accenna a un saluto di cortesia.

In lontananza, davanti a noi un cancello chiuso che si aprirà automaticamente una decina di metri prima del nostro ingresso.

Gli agenti ci avvisano che i detenuti sono stati chiamati, alcuni già attendono nella stanza assegnata per l’incontro. Gli uomini rivolgono uno sguardo accogliente ai nostri tre colleghi (due donne e un uomo) che già conoscono e che hanno condotto gli incontri ai quali io e Sonja non abbiamo mai partecipato poiché in quel periodo stavamo frequentando il corso di scrittura terapeutica di Sonia Scarpante; metodo che oggi andremo a presentare per sommi capi per sondare la possibilità di proporlo alla direzione del carcere per il prossimo anno.

Alcuni detenuti ci si presentano con fare sorpreso, ci tendono la mano, ci invitano ad accomodarci, altri entrano, siedono ignorandoci poi si alzano e vengono a salutarci.

C’è tensione nell’aria, si avverte timore, diffidenza. Sguardi bassi, alcuni biechi, altri sfuggenti. Riconosco la gestualità e la postura sciolta di chi tra i volontari è avvezzo al luogo, le frasi di rimando al caldo, mani che sollevano i capelli e scoprono il collo delle mie compagne che frequentano questi detenuti da tempo e che a fatica hanno ottenuto da loro fiducia, se non rispetto.

Io appaio diversa dalle due colleghe e da Sonja, mi pongo in modo diverso. Per indole? Forse. Per distacco? Può essere. Sono vestita in modo differente dalle mie tre colleghe, sono truccata, capelli sciolti sulle spalle che non tocco, non sudo, non mi lamento per la canicola – che per inciso è l’ultimo dei miei pensieri; sto seduta a schiena dritta e gambe strette – indosso un abito blu sbracciato, un giro di perle intorno al collo, le mani appoggiate in grembo, sandali alti che scoprono quasi per intero i piedi, le unghie laccate…

Sono un elemento di disturbo. Una sorpresa non gradita e lo avverto come il predatore che annusa e stana la preda. Lo avverto man mano che i minuti scorrono in attesa dei corsisti ritardatari e isolo la mente. Li osservo, li ascolto, mi aggancio alla battuta di uno di loro per avviare una conversazione, ma il mio tentativo fallisce in uno scambio scarno di frasi.

Sappiamo dai nostri colleghi che questo è stato un gruppo difficile da gestire, indisciplinato, poco attento, poco collaborativo e interrotto dal continuo avvicendamento di nuovi ingressi, sempre accettati con la benevolenza dettata da un senso di accoglienza da parte dei conduttori.

L’attesa spazientisce Sonja che attacca a introdurre l’idea del nostro nuovo progetto di scrittura terapeutica, premettendo che la buona riuscita di un gruppo di incontro è il risultato di regole che vanno seguite nel rispetto reciproco. Ottiene silenzio e attenzione con sorpresa di tutti i presenti.

Poi si parla del corso che si sta concludendo con insuccesso e di cosa può non aver funzionato. Si trattava di mediazione associata a ritratto fotografico. Trentotto secondi di attenzione durante i quali uno sta dietro e l’altro davanti all’obiettivo. Uno studio ideato dalla collega fotografa con successivi rimandi alle emozioni vissute e allo stesso momento fermate dallo scatto in quel lasso di tempo. Lavoro che era già stato svolto e portato a termine con successo nel reparto femminile nel semestre precedente.

La collega riferisce che l’ultima volta, dopo aver appoggiato la macchina fotografica sul tavolo, gli uomini si sono allontanati come in preda al panico.

Non capisco. Non riesco a capire. Siamo in una stanza a porte aperte, dove si tiene un corso di mediazione e di ritratto fotografico frequentato da uomini che rifiutano la fotografia.

Io sono per le cose semplici. Sì vuol dire sì. No vuol dire no

Chiedo se ci sia la possibilità di fare una simulazione per capire cosa possa creare disagio, imbarazzo e rifiuto. Mi dicono che non c’è tempo.

L’altra collega propone un giro di parole – una tecnica che si usa in mediazione per far emergere i ‘sentiti’. Si tratta di pronunciare una parola senza darsi il tempo di pensare a cosa scegliere di dire. Di solito poi si commenta su quale sentimento si è provato pronunciandola e quale ha provocato in chi lo ascolta.

I vocaboli che sento pronunciare rispecchiano le sensazioni che aleggiano nell’aria sin dall’inizio dell’incontro: stanchezza, delusione, paura, distacco, caldo, disappunto

Il mio pensiero rimbalza alle parole dei miei corsi precedenti: blu, nostalgia, famiglia, mancanza, fame, attesa, prepotenza, impazienza, frustrazione, libertà… Sto sempre parlando di persone detenute che hanno commesso, o non, reati, ma di altro genere. E che per quanto grave potesse essere la loro colpa, per quanto il loro fosse un cammino lungo e arduo verso la consapevolezza dell’errore compiuto, la loro meta era il rimedio, il riscatto, la libertà a testa alta. È difficile anche solo pensarlo, ma è il presupposto per lasciarsi le sbarre dietro le spalle. Ci vuole molto coraggio, determinazione e rispetto.

L’uomo che ha pronunciato la parola ‘disappunto’ è quello con una lunga e folta barba grigia raggruppata verso la punta da una stoffa elastica di colore nero. Parola che ha pronunciato puntandomi con occhi di brace. Sguardo che ho sostenuto con consapevole indifferenza per tutto il tempo.

La mia parola era: silenzio.

Non c’è tempo per commentare e il discorso torna sulla frustrazione nei confronti della fotografia.

Sonja propone che si prenda appuntamento con la collega fotografa per la volta successiva.

A quel punto, sbotto.

“Scusate, ma io non sono d’accordo. – di nuovo nella stanza si fa silenzio – Chi si iscrive a un corso lo fa di sua spontanea volontà. Non credo che qualcuno di voi sia stato obbligato a farlo. – alcuni annuiscono, altri abbassano lo sguardo. L’uomo con la barba incrocia le braccia a pugni serrati. – Se il corso propone fotografia e io mi iscrivo, significa che sono disposto a seguire le indicazioni che mi vengono date. Si tratta di rispetto nei confronti dei compagni e di chi conduce l’incontro. Altrimenti uno è libero di non farlo. Tutto quello che viene fatto o detto nel corso degli incontri rimane qui e nessuno ha intenzione di portare fuori le vostre immagini.”

La collega fotografa mi interrompe, parlando del rapporto di fiducia che si deve instaurare tra fotografo e soggetto, cosa non semplice anche per il mondo di fuori.

Non ci avevo pensato, è vero, valuto di essere stata troppo impulsiva e correggo il tiro: “OK, magari non subito, non al primo incontro, ma col tempo, con fiducia ci sia arriva tutti. D’accordo, giusto, è vero. Mi dispiace.”

A quel punto l’uomo con la barba trascende e mi attacca con una violenza inaudita, vomitando tutta la sua storia personale con un livore inquietante. Storia che non racconto perché, come ho detto a lui, non ė cosa di mio interesse. Noi siamo lì per lavorare e non per sapere chi ha fatto cosa. Lui seguita a sferrare affondi e insulti, accusandomi di tenere un comportamento autoritario, di aver fatto discorsi da nazista, di essere piombata lì come la gestapo, ‘questa gioventù hitleriana…’ sottolinea imperioso, rimbalzando sulla sedia e sporgendosi sul tavolo come a volermi annientare. Ritiene inoltre di essere stato profondamente offeso dalle mie parole omofobe.

Sono una donna di poca pazienza, lo riconosco, ma quella donna è uscita dal mio corpo nel momento stesso in cui lui ha iniziato la sua filippica e l’ho visualizzata allontanarsi da quella stanza pregna di odio.

Quella che è rimasta seduta, composta e in silenzio, a un certo punto ha chiesto la parola alzando l’indice.

“Lei mi conosce?” gli ho chiesto fissandolo negli occhi.

“No.”

“Come si permette di insultarmi dandomi dell’omofoba?” Riguardo le altre idiozie, non ho replicato, valutando di essere di fronte a una persona demente, schizoide, violenta, egocentrica e con gravi problemi di gestione della rabbia.

Ha replicato che me ne sarei dovuta andare via.

“Non ci penso neanche. Se non si sente a suo agio, è libero di andarsene da questa stanza. Almeno quello può farlo.”

Ha ripreso comizio, ma io l’ho interrotto di nuovo.

“Ma lei sa cosa significa, o meglio… Mi spieghi cosa intende per: OMOFOBO.”

Con un delirio di frasi che hanno spaziato dal suo odio per le donne -parole sue- alla sua difficoltà a stare in una stanza da solo con una donna; al fatto poi che queste donne che si impongono e diventano magistrati o vanno a finire in politica e loro che sono lì in quel reparto perché chi più, chi meno si sa qual è il genere di imputazione a loro carico…

Insomma secondo il suo ragionamento io lo avrei, con le mie parole e col mio atteggiamento, volutamente offeso perché io sono una donna e lui un uomo detenuto per reati a sfondo sessuale

Dopo un generale scambio di opinioni tra i corsisti a proposito di chi realmente nutriva pregiudizio verso chi e su quanto esagerata e fuori luogo fosse stata la sua reazione, i miei colleghi hanno dichiarato concluso l’incontro e ci siamo alzati.

C’è stato un mesto scorrere di strette di mani, di saluti a occhi bassi, di scuse abbozzate da parte dei suoi compagni detenuti.

Arrivata sulla soglia della porta, mi sono voltata, sono tornata indietro e mi sono diretta verso l’uomo con la barba. Gli ho teso la mano e gli ho ripetuto, come già avevo fatto prima, che se il tono delle mie parole lo aveva offeso, mi dispiaceva. Lui mi ha stretto la mano con entrambe le sue ed evitando il mio sguardo: “Le chiedo scusa, in fondo non la conosco.”

“Può essere che abbia modo di farlo, se l’anno prossimo decideremo di avviare il laboratorio di scrittura terapeutica.”

“Ah ma io non ci sarò, qui ho finito. Tra poco esco.”

“Meglio così.” Sono uscite queste due parole dalla mia bocca, mentre quella ‘me’ che aveva lasciato la stanza un’ora prima avrebbe esclamato: “Scordatelo!”

Disappunto significa: contrarietà, delusione e stizza per cosa imprevista e non gradita.

E pensare che quando ha pronunciato quella sua parola, io non avevo ancora aperto bocca…

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Antonella Cavallo Popy
Collaboro nell'azienda di famiglia che alla terza generazione progetta e fabbrica apparecchiature per la ricerca scientifica, calcando le orme della genialità artistica di nostro padre e del nostro nonno inventore. Ho pubblicato racconti, poesie e romanzi, partecipando a concorsi e ottenendo riconoscimenti e premi. Dal 2012 mi occupo di volontariato con art.17, operando come mediatore culturale, linguistico e penale presso gli istituti penitenziari milanesi di San Vittore e Bollate con progetti di scrittura condivisa, psicodramma, teatro e mediazione, volti al coinvolgimento delle persone detenute in attività letterarie e teatrali in un cammino verso il riscatto di dignità, rispetto e libertà. A seguito formazione specifica, ho ottenuto l'abilitazione di Facilitatrice di Scrittura Terapeutica Metodo Sonia Scarpante e dal 2018 conduco un percorso di Scrittura Terapeutica nel reparto maschile di San Vittore VI raggio -  reparto detenuti protetti. La mia passione per la lettura e per la scrittura, nonché lo studio per aggiornare e approfondire le mie conoscenze, sono il motore propulsore che mi spinge a condividere la potenza delle parole nei luoghi in cui la cura di sé può rappresentare l'unica speranza di riscatto emotivo, l'unico respiro di libertà.
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8 Commenti

  1. Mah… continuo a stupirmi di come tu riesca a convogliare le tue emozioni , così forti, in parole ragionevoli di raffronto con chi si fa travolgere dalla rabbia e dal rancore. Sono comunque momenti preziosi di crescita e di sfida che meritano grande rispetto e ammirazione!!

    • Loredana… A volte è decisamente complicato e allora mi tornano utili le tre parole magiche: conta, pensa, respira. Devo dire però che quel tipo di atteggiamento provocatorio e livoroso nei miei confronti non l’ho mai più subito.
      Grazie per la tua costante attenzione alle mie parole

  2. Cara Antonella è certo che l’impegno che vi siete assunto non è semplice. Avere empatia, controllo e calma non è semplice. Non giudicare non è semplice. Essere se stessi rispettando il prossimo non è semplice. Se tu hai deciso di essere te stessa ed in quel caso indossare un abito elegante con un filo di trucco e la scarpa adeguata ,di certo non lo hai fatto per provocare ma forse anche con , jeans, camiciola e scarpe da ginnastica avresti ottenuto la stessa reazione. Non è mai semplice essere accettati da tutti . Continua con i tuoi corsi che sicuramente possono aiutare chi è dentro a vivere un po’ meglio preparandosi ad un futuro migliore fuori, con la consapevolezza che ogni difficoltà superata sarà un grande traguardo!

    • Grazie, Rudy! Quando mi sono resa conto che non saremmo andati dai nostri ex-corsisti, ma da sconosciuti di quel reparto particolare, mi sono ricordata dell’avvertimento ricevuto molti anni fa in previsione del mio primo ingresso in carcere a San Vittore: abbigliamento sobrio, neutro.
      Sobrio, lo era. Neutro, no. Però sì, è vero, con le rivelazioni delle ultime battute, probabilmente anche se avessi indossato un sacco di juta, gli avrei dato comunque fastidio.
      Che fosse complicato avere a che fare con categorie protette di quel calibro, lo sapevo. Ma non si impara mai abbastanza. Non bisognerebbe dare nulla per scontato. Presumere di avere esperienza serve a poco; fare un passo indietro, a volte invece sì, serve e si ottiene rispetto da chi rimane sorpreso da quel piccolo gesto. Soddisfazione e messaggi di ringraziamento e riconoscenza che ricevo da ex-detenuti, mi danno la spinta a continuare. Grazie per l’attenzione che usi nel leggere le mie parole

  3. Niente arriva alle donne con difficoltà che l’indifferenza. Non ce lo insegnano le nostre madri, non insegnano nelle scuole, un amico o anche un buon amico non ce lo diranno. Nel frattempo, è lei – astuta indifferenza – il rimedio a molti dilemmi delle donne. Per quale miracolo? Perché basta guardare, quando ti chiedi se lui pensa, se gli importa, se vale la pena incontrarsi di nuovo, sei vicino all’azione, combatti nel senso sbagliato della parola e distrugge il gioco. Ti attivi internamente, motivi, giustifichi in ogni modo possibile, perché non c’è tempo da perdere… Ed è così che cadi in una trappola nota da tempo, “vuoi troppo”, e quando una persona ha esso, l’altro perde “appetito”. L’equilibrio della natura deve essere mantenuto. Perché quando ti allontani dal “topo” che il gatto maschio vuole inseguire, ti trasformi in una tigre, un gattino spaventato, notando che ha perso le forze, inizia ad avere paura e scappa… Ecco come si fa funziona – per inseguire, qualcuno deve correre, giusto?
    E non scapperai.
    Devi andare per te stessa e le tue idee.
    E grazie mille a Te e Sonja che avete trovato un modo, che ho ricominciato a scrivere e scrivo ancora. Dana

  4. Dana, carissima! Che piacere leggerti! Quanta saggezza nelle tue parole! I nostri vecchi dicevano che il peggior dispetto è la noncuranza. A volte è difficile restare indifferenti alle offese, ma a ben guardare sembra proprio essere la strada migliore anche che se l’istinto che nasce dal profondo ci urla di spalancare le fauci e tirare fuori le unghie… Ci vuole pazienza e con calma, come insegna un vecchio proverbio cinese: siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico. Tu amica, carissima, sei l’esempio della pazienza, della perseveranza, della volontà, del riscatto. Sei il nostro orgoglio. Ti abbraccio con grande affetto. Grazie per le tue parole

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