È stata la mano di Dio

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Recensione di Antonella D’Orlando di “E’ stata la mano di Dio”

Sorrentino è un regista di solitudini. 

Questo film è il romanzo della sua formazione, è un ritorno a sé stesso e a Napoli dopo che il tempo e le opportune peregrinazioni attraverso l’esplorazione di solitudini alternative hanno messo la giusta distanza col passato

Trama: Fabio Schisa è un ragazzo napoletano che transita a Napoli negli anni ’80. Due eventi straordinari stanno per travolgerlo: l’arrivo di Maradona al Napoli e la morte dei suoi genitori. Fabio dovrà inventarsi il suo modo per sopravvivere alla sua tragedia.

Maradona

Napule è ‘na carta sporca
E nisciuno se ne importa
E ognuno aspetta ‘a ciorta

Pino Daniele – Napule è

‘A ciorta. Fortuna, destino, fato? Qualcosa in più, o tutte queste cose insieme. Ciorta è una parola che ha mantenuto un’ambiguità semantica anche nell’attuale. È la sintesi tra un umano abbandono alla vita e una mistica tensione alla speranza in una cornice di passività che sfuma nella malinconia. È un disegno divino che non si può piegare alla volontà umana. La ciorta si attende e intanto si tira a campare. Qualcosa o qualcuno arriverà da un altrove e ci farà venire di nuovo voglia di ridere e sognare. Maradona? All’epoca pareva proprio di sì, e ve lo dice una ragazza napoletana degli anni ‘80. 

Maradona era una ciorta collettiva, popolare nel senso del popolo, il nostro Personal Jesus, il supereroe che combatte per noi e vince la sfida con la vita che ci preme la mano sulla schiena e ci costringe in un atto di genuflessione. Maradona invece ci faceva scattare in piedi, testa alta e pugni al cielo, in un unico e assordante coro: Goooool!

Anche Fabio aspetta: aspetta Maradona, aspetta di fare l’amore per la prima volta, aspetta di diventare uomo immerso in un’umanità gioiosa e variopinta, folkloristica, che lo tiene in grembo con un laccio stretto e lo educa allo sguardo, alla contemplazione delle infinite declinazioni dell’anima, alla permeabilà alle intrusioni delle intemperanze umane, alla cittadinanza in un mondo parallelo, all’immaginazione. 

La realtà non mi piace più. La realtà è scadente

Ma se Maradona è stata una buona ciorta per il popolo napoletano, Fabietto ha avuto una strana ciorta, sì perché la ciorta può essere infame, volubile e maligna. I suoi genitori muoiono a causa di un incidente domestico. Lui si salva perché era allo stadio a vedere Maradona. È stata la mano di Dio! 

Ma quel grembo ha rotto le acque e Fabio nasce, come tutti noi, nel dolore della perdita e della separazione. È qui, a metà film, che la ribollente umanità si congela in un deserto di sentimento. È la fine di quell’essenza strabordante di profumi, delle risa chiassose dei pranzi domenicali all’aperto, del rivolo di latte che scorre lungo il viso mentre addenti la mozzarella, del suono dei ciottoli sotto i passi incerti, delle promesse d’amore immerse nel mare complice che culla e nasconde le promesse del corpo. 

Zia Patrizia

Tutti abbiamo avuto una zia pazza, o almeno spero per voi che sia stato così. Io ce l’ho avuta ed era bella come Luisa Ranieri che interpreta zia Patrizia. Le “zia Patrizia” sono fondamentali per la formazione di ciascuno di noi perché, a un certo punto, bisogna fare i conti col fatto che due più due non fa sempre quattro, che non c’è un teorema logico-matematico che spiega come si campa, che ‘o munaciello esiste veramente e che se gli vuoi bene ti benedice. 

Il film comincia proprio con lei, anzi, con uno sguardo divino sul golfo di Napoli che contrae l’iride proprio su di lei, la pazza di casa, con una scena onirica che ci dà la chiave di lettura della storia e cioè che dobbiamo essere pronti a lasciarci sedurre dalla follia e a dialogare con l’immaginazione. Quant’è bona zia Patrizia alla fermata del pullman che acchiappa un passaggio nientemeno che da San Gennaro, occhi blu, pizzetto e codino, una faccia conosciuta, quella di Enzo Decaro. Chissà, forse un omaggio a Massimo Troisi che nel mitico sketch della Smorfia recitava “San Gennà a me me bast’ n’ambo, una settimana sì e una no”. 

Zia Patrizia è la Musa di Fabio, una donna di un femminile primordiale, oscena e teneramente sensuale, struggente e carnale, sfacciata e angelica, persa con lo sguardo all’orizzonte mentre il vento le agita i capelli, ma, soprattutto, custode di una materia indicibile che Fabio imparerà a maneggiare solo col tempo. Si dice che la follia sia una fuga dalla realtà nell’immaginazione; invece è la fuga dell’immaginazione nella realtà nel senso che scappa via a briglia sciolta, è un’incursione del sogno nel concreto che contamina le cose e le relazioni, inflaziona, corrode. I folli sognano da svegli San Gennaro che viene a prenderli alla fermata. Ma che meraviglia! 

La purezza del desiderio che ha Fabio di sua zia è disarmante, ma non perché è infantile e pudico, perché è contemplativo, misterico, iniziatico. Il desiderio è una fiamma che arde, scalda, illumina la strada. Non scotta, non brucia, non distrugge; quando fa così, semmai, è l’agito di un bisogno che non ha trovato un argine nella capacità di inventare una soluzione simbolica per offrirsi al mondo e agli altri con un atto creativo. 

Fabio non vuole possedere o dominare la zia, vuole partecipare al suo mistero.    

L’appeso

Fabio è uno che sa guardare, che si meraviglia. L’uso sapiente della macchina da presa che si sovrappone allo sguardo di Fabio mentre attraversa la galleria Umberto è magistrale, contemplativo, quasi mistico. Sotto la galleria, una sorta di cattedrale laica a quattro porte, appeso alla cupola c’è un uomo a testa in giù. Antonio Capuano sta girando un film e quello lì appeso è un attore. 

L’Appeso è il manifesto del mio film di Sorrentino, della mia personale visione del film. Nella simbologia dei tarocchi l’Appeso, è colui che guarda il mondo rovesciato, per contrasto. Una tragedia, sembrerebbe, poiché la sua posizione richiama l’immagine di un supplizio pubblico, ma a una visione più attenta il suo viso appare rassegnato, quasi sereno, spesso circondato da un’aureola dorata. È simbolo di sacrificio, di inattività in attesa di trasformazione, quasi di piacere nel dolore in cui lievita una promessa salvifica. Uno stato di sospensione, appunto, di beatificazione, di ritiro in una posizione supera e altra rispetto ai codici del mondo concreto. È un supplizio, sì, ma tocca a tutti, tant’è che se la cartomante vi tira fuori l’Appeso rovesciato vi dice, senza troppi giri di parole, che siete incapaci a transitare il dolore.

Fabietto resta appeso – che poi è un modo di dire napoletano “m’hai appeso”, non hai mantenuto la promessa e mi hai lasciato solo e vuoto -, come Patrizia, appesa nel suo mondo-delirio, come la Baronessa, appesa dal marito che è morto troppo presto, come Armando, il contrabbandiere di sigarette appeso da Capri, scura, vuota e silenziosa. E poi c’è la sorella di Fabio appesa in bagno, Marchino appeso da Fellini, Saverio e Maria appesi dalla stufa. Ok, ok, ma come si scende a terra?

Nella mia visione del film, la scena in galleria si sovrappone alla rappresentazione filmica della stessa sullo schermo davanti agli occhi sgranati di Fabietto che guarda e apprende improvvisamente il mezzo per mediare tra il suo mondo appeso e la realtà: il cinema, un’altra cattedrale laica dove si celebrano riti di iniziazione all’immaginazione, la palestra dell’anima.     

La Baronessa

 È ora di pensare al futuro

Betty Pedrazzi interpreta la Baronessa con squisita eleganza, femminilità e sensibilità in una delle scene più difficili del film. Mentre la guardavo non potevo fare a meno di pensare a una millenaria tartaruga marina che tutto conosce e insegna: forte, tenace, anch’essa con la sua piccola cattedrale sulle spalle, uno scudo difensivo, una casa, un peso da portare con pazienza come la memoria, con lentezza e sacrificio. Eppure procede verso il mare. 

La baronessa introduce Fabietto alla vita, come sempre accade, con un atto rivoluzionario. Ecco che in Fabio si possono riconoscere i prodromi di Jep Gambardella, condannato alla sensibilità, di Titta Di Girolamo, di Tony Pisapia che sono stati il futuro di Fabio, ma lui ancora non lo sapeva mentre assaggiava il sapore della possibilità, l’uscita di scena dal suo teatro di dolore e di abbandono, il compromesso salvifico con la realtà della morte.

Napoli

E poi c’è Napoli, il teatro di questa vicenda umana. 

Napoli è una grande madre che contiene tutti gli elementi, il fuoco e l’acqua, la terra e l’aria, con le sue budella putrescenti e le colline fiorite, castelli, gallerie, cimiteri, chiese, il traffico e le jastemme, le canzoni d’amore. È una madre che ci potrebbe soffocare nel sonno con la sua nube piroclastica mentre ci canta la ninna nanna. E com’è dolce questa ninna nanna!

“Nessuno se ne va veramente da qui!” grida Capuano a Fabio davanti al golfo quando lui gli dice che vuole andare a Roma a fare il cinema. Per noi napoletani che viviamo in una sorta di partecipazione mistica con la città, questa frase ci dà uno straziante piacere carnale. Per voi che abitate altre città, altre storie, altri luoghi, può significare che non si abbandonano mai veramente le terre dell’anima in cui possiamo rintracciare le nostre origini; non se ne vanno mai veramente i volti, i profumi, i rumori, i sapori, gli umori e i languori che abbiamo transitato per diventare donne e uomini. Ma non per tormentarci. Attendono solo un nuovo racconto.

Ma possibile che ‘sta città nun te fa venì in mente niente ‘a raccuntà? ‘A tien ‘na cosa ‘a raccuntà?

Sì.

E dimmell!

C’ha messo trent’anni Fabio/Paolo per raccontare la sua storia, la distanza giusta per raccoglierne tutto il senso possibile – senza la presunzione che ciò sia un atto risolutivo – e restituirlo al pubblico nella veste artistica e poetica che gli è propria.

Buona visione!

Informazioni sul Film
Titolo: E’ stata la mano di DioRegia : Paolo Sorrentino
Attori (alcuni): Toni Servillo, Filippo Scotti, Teresa Saponangelo, Luisa Ranieri, Massimiliano Gallo
Anno: 2021

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Antonella D'Orlando
psicologa psicoterapeuta, esercita la professione nel suo studio di Napoli. Dedita da sempre per passione alla scrittura creativa, cinematografica e teatrale, si è formata alla scrittura terapeutica con Sonia Scarpante col desiderio di integrare nella sua attività professionale quello che ha sperimentato come un potente strumento di cura. Oggi conduce piccoli gruppi di scrittura autobiografica, espressiva ed epistolare nel suo laboratorio che ha intitolato Step – scrittura terapia psicologia.
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